Come capire quanto è sostenibile il mondo digitale? Piano D intervista Gauthier Roussilhe

1 Ottobre 2021

Digital Sustainability: una serie di interviste realizzate dal team di Piano D in collaborazione con Seeweb, ai maggiori esperti mondiali di sostenibilità digitale. L’obiettivo di questa rubrica è quello di sensibilizzare sul rapporto tra ambiente e sfera digital, condividere idee, opinioni e pillole informative; capire come un tema oggi sconosciuto in Italia, venga recepito all’estero.

Ciao Gauthier, è un piacere fare questa chiacchierata insieme. Per iniziare ti andrebbe di raccontarci qualcosa circa il tuo background e i tuoi studi? Di cosa ti sei occupato sino a ora e quando hai iniziato a interessarti alla sostenibilità digitale?

Nel 2017, dopo aver lavorato a lungo con la mia agenzia di design, ho scelto di riprendere gli studi per specializzarmi sul tema del cambiamento climatico applicato al digital design, così sono partito per Londra per formarmi. Sono ormai passati quattro anni e grazie alla maggior diffusione di queste tematiche qui in Francia, specialmente in questi ultimi tempi, sono riuscito a costruire ottime relazioni e a collaborare con diverse realtà e gruppi, sia di ricerca che creativi, oltre ad aver iniziato a scrivere guide per la sostenibilità digitale destinate al pubblico francese.

Il mio scopo principale è quello di arrivare a comprendere e spiegare la complessità dei servizi e delle infrastrutture digitali, il loro effettivo impatto sull’ambiente, oltre al rapporto tra l’avanzamento del digitale e l’impoverimento delle risorse energetiche e naturali di cui disponiamo. In ultima analisi, come la creazione di infrastrutture digitali possa essere un pericolo silente per il nostro pianeta o aggravare problemi ambientali già esistenti.

La mia analisi riguarda nel particolare proprio il modo in cui stiamo gestendo il settore digitale in questi ultimi anni e se questa gestione sia effettivamente compatibile con i principi della sostenibilità ambientale: è chiaro che per prima cosa è essenziale cercare di capire i consumi reali, globali, dovuti allo sviluppo di questo settore.

Sto parlando non solo di come misuriamo i consumi, ma della necessità di effettuare un’analisi che tenga conto di dove questi siano maggiormente localizzati. Da qui serve poi capire come progettare servizi migliori e più stabili per il digitale; lo sto facendo al momento per la National Agency For The Ecological Transition in Francia, e lavoro a supporto anche di molte altre organizzazioni per creare sistemi web sostenibili.

La mia ricerca riguarda prevalentemente l’industria dei semiconduttori (al momento stiamo analizzando la produzione di semiconduttori localizzata a Taiwan), e l’analisi dei consumi di acqua per l’uso dei data centers, in particolare per quanto riguarda le risorse della West Coast americana.

Potresti raccontarci qualcosa in più circa la percezione che si ha in Francia di queste tematiche e di qual è stato il tuo ruolo nel generare consapevolezza circa l’importanza della sostenibilità ambientale nel digitale? Come si è comportato il governo francese e quali misure sono state introdotte?

In Francia la sostenibilità ambientale legata al digitale è una tematica emersa già da diversi anni.

Credo che molto si debba al report fatto da The Shift Project, che ha creato un grandissimo spazio di dibattito, catturando anche l’attenzione di chi fino a quel momento non si era mai interessato a questo tema.

Possiamo pensare a quel report del 2018 come a un momento chiave circa il dibattito sulla sostenibilità ambientale in Francia perché da quel momento in poi sono arrivati anche i primi approcci da parte della politica e delle amministrazioni.

Ci sono state consultazioni pubbliche da parte del Senato e del Parlamento riguardo i temi di cui stiamo parlando; siamo stati in grado di portare a compimento un primo atto di legge, l’“Anti-waste and Circular Economy Law”, che sostanzialmente riporta la necessità di richiedere agli operatori del settore delle telecomunicazioni di rendere pubblici i loro consumi, il calcolo di emissioni di carbonio per 1Gb trasferito nel loro network, cosa che ci ha permesso di studiare sempre meglio e più approfonditamente il fenomeno.

Come si può immaginare quello del calcolo e dell’analisi del consumo dati era –  e continua a essere – un argomento davvero molto delicato, che coinvolge numerosi attori che lavorano in questo settore, e che richiede chiaramente molto tempo e attenzione per essere analizzato correttamente in tutte le sue sfaccettature.

In questo momento abbiamo al vaglio del Governo anche un secondo provvedimento che dovrebbe definire l’obbligo dello studio della sostenibilità digitale per gli ingegneri, oltre alla creazione di un osservatorio nazionale per il settore digitale, insieme a tante altre importanti soluzioni, anche se il Parlamento deve ancora deliberare su molti dei punti presentati con la proposta di legge. Il nostro proposito è ovviamente quello di ottenere l’approvazione di una buona parte dei punti proposti, sperando di poter fare di nuovo la differenza.

Leggendo i tuoi articoli e le tue guide ti abbiamo visto considerare più volte la necessità di un approccio territoriale circa la sostenibilità digitale – come ci stavi accennando anche poco fa –  ti va di spiegarci questo concetto un pochino più nel dettaglio?

Il primo problema che mi viene alla mente è quello della dematerializzazione, che è intrinseco al settore digitale considerato che non esistono strutture e infrastrutture di smaltimento globali, né un eventuale calcolo dei costi globali di questo processo.

È un problema unico nel suo genere possiamo dire, questo chiaramente complica le cose, ma se ci pensiamo attentamente le possibilità di creare soluzioni attuabili esiste. Quel che abbiamo fatto sino a ora e che si continua sostanzialmente a fare è “trasferire” più che “smaltire”.

Considerando di vivere in quello che veniva definito “villaggio globale”, non riusciamo a trovare nessun luogo con la stessa società, cultura e geografia: questo, in qualche modo, ha funzionato come un ostacolo alla diffusione dell’idea che le infrastrutture digitali debbano essere create per adattarsi localmente, in armonia con le varie esigenze delle differenti aree territoriali.

Il problema è che avendo a disposizione dati “globali” abbiamo un quadro poco attinente alla realtà che non riesce a fornirci informazioni funzionali a circoscrivere localmente le criticità. I dati ottenuti con un’analisi globale si distribuiscono in modo uniforme, non ci raccontano nulla a livello locale né ci spiegano come avvengano effettivamente i consumi. Non abbiamo indizi, in sostanza, che ci aiutino a capire dove cercare gli eventuali problemi e a intervenire per lavorare nell’ottica del miglioramento.

Sappiamo che in Irlanda, ad esempio, il consumo dei data center raggiunge il valore dell’11% del consumo elettrico nazionale, questo chiaramente significa grandi disagi a livello territoriale dove si trovano localizzati effettivamente i data centers e dove il consumo elettrico viene dirottato in parte per il loro funzionamento, utilizzando l’elettricità disponibile sulla rete irlandese, in particolare utilizzando fonti di energia rinnovabili, che diventano non accessibili per altri settori. Ecco perché la transizione ecologica dovrebbe per prima cosa realizzarsi efficacemente a livello locale. Abbiamo bisogno di avere davanti agli occhi in modo chiaro l’intero ciclo produttivo, di capire i suoi meccanismi, quali risorse ci servono per produrre, e cosa accade quando i prodotti digitali smettono di funzionare e abbiamo bisogno di smaltirli responsabilmente, per il bene del nostro pianeta. Tutto questo per quanto riguarda i materiali, un discorso a parte andrebbe fatto per la social security, altro tema delicatissimo e complesso da analizzare.

Come credi si svilupperanno le cose nel prossimo futuro?

Per quanto riguarda lo sviluppo del digitale o di internet in generale, ogni volta che proviamo a fare previsioni ci accorgiamo di fallire e di quanto sia imprevedibile la materia che stiamo trattando. È molto difficile provare a definire un quadro futuro, anche solo nel breve periodo.

Dal mio punto di vista internet è ancora grandemente idealizzato, inteso come luogo di libertà e di grandi possibilità per tutti, frasi che abbiamo sentito dire molte volte. In realtà, come è sempre più chiaro, esistono tanti diversi “mondi internet” che coesistono nello stesso ecosistema digitale. Esistono sistemi internet completamente controllati, come avviene ad esempio in alcuni paesi che convivono con dittature; se facciamo attenzione possiamo notare come quasi ogni paese del mondo abbia un proprio “ecosistema internet” con caratteristiche uniche. L’uso della rete è così vasto e allo stesso tempo così personale, che è impossibile pensare che possa esistere uno sviluppo uguale e omogeneo per tutti, in tutto il globo.

Non dobbiamo presumere che la digitalizzazione sia un processo sempre benefico, ci sono davvero tanti argomenti di cui discutere approfonditamente perché ci pongono davanti a problemi etici, un esempio pratico può essere quello del riconoscimento facciale. Bisogna fare attenzione a considerare tutti i contesti d’uso, e le sfumature in questo senso sono davvero tante. Una considerazione che si può effettivamente applicare a ogni ambito del digitale: c’è bisogno di più conoscenza e attenzione per maneggiare con la giusta cautela certi strumenti.

Analizzando la situazione europea salta immediatamente all’occhio il rapporto di dipendenza che abbiamo nei confronti di altri paesi. In Europa non produciamo hardware e abbiamo pochissimo contatto reale con la catena produttiva: l’Europa si può ancora tranquillamente definire una “colonia digitale”, quello che manca è una visione strategica dei sistemi digitali, cosa che ci mette in difficoltà quando cerchiamo di analizzare la realtà che viviamo per migliorarla.

Se continueremo a procedere sempre convinti che gli ecosistemi digitali emergano grazie a una libera competizione saremo sempre in ritardo o in svantaggio, perché al giorno d’oggi ogni ecosistema digitale emerge da mercati molto chiusi e protettivi.

Se vogliamo migliorare davvero, dobbiamo essere in grado di comprendere la catena produttiva digitale e affinché questo avvenga è fondamentale essere in grado di controllarla, dall’inizio alla fine.

Considerato l’approccio quasi sempre privo di criticismo o comunque che accetta senza troppe riserve le azioni dei grandi players e colossi del settore, come ad esempio Google, vorrei chiederti qual è l’atteggiamento francese in relazione ai providers e al loro uso. C’è più apertura in Francia circa l’utilizzo di providers francesi?

Diciamo che il governo francese tende sempre a favorire l’uso di providers e strumenti statunitensi in termini di infrastrutture e operatori cloud.

I players francesi non sono particolarmente considerati, anche in questi ultimi tempi dove a causa della pandemia globale l’uso di internet si è reso più necessario che mai per le attività quotidiane, come ad esempio per la creazione di infrastrutture adeguate alla gestione della didattica a distanza. Ma questa è una difficoltà che incontriamo in tutta Europa, non solamente in Francia.

Grazie ai tuoi articoli riusciamo a campire molto meglio come funzionano le infrastrutture a sostegno del digitale. Cosa ci puoi dire circa la possibilità da parte dei vari players dell’acquisto diretto di acqua per i data centers in luoghi dove non esiste ancora legislazione specifica sul tema, né norme a protezione dell’ambiente.

Per fare un esempio pratico proviamo a considerare il panorama americano, che riguardo i data centers è molto peculiare. In questo caso per costruire data centers si ricercano in generale luoghi desertici o con climi asciutti per abbassare i livelli di rischio che queste strutture si portano inevitabilmente dietro e aumentarne allo stesso tempo l’efficienza; penso a cosa accade nello Utah o nel Nevada, stati dove si può addirittura aver accesso a fondi e incentivi per costruire.

Faccio fatica a pensare che la costruzione di data centers porti così tanti vantaggi in termini di creazione posti lavoro o sviluppo, tanto da compensare i disagi che causa. È però difficile da parte delle amministrazioni locali declinare un’offerta del genere se si viene scelti come sito di costruzione; stiamo parlando di un movimento che si percepisce sempre come uno scatto in avanti, come una grande possibilità di progresso, quindi difficilmente inquadrabile nell’ottica di un rischio effettivo.

In Francia ad esempio, c’è molta domanda di personale qualificato per lavorare in queste strutture, apparentemente non se ne trova a sufficienza da soddisfare la domanda. I principali data centers stanno creando scuole per formare operatori qualificati anche se offrire una formazione omogenea non è semplice, considerato che ogni player forma i propri tecnici in modo indipendente e all’interno di un mercato che è sempre – non dimentichiamolo mai – molto competitivo, dove la privacy da mantenere circa il proprio lavoro è fondamentale.

In Italia la maggior parte dei providers si è posta l’obiettivo di raggiungere la soglia delle zero emissioni entro il 2030. Rimangono molte domande alle quali dobbiamo trovare risposta, incluso il problema dei data centers che vanno chiaramente adeguati e la criticità dell’approvvigionamento di energia e acqua.

La domanda di energia ai differenti comuni va sempre considerata, perché si rischia di mettere un freno allo sviluppo economico locale, e di essere in contrasto con il piano di transizione ecologica delle singole amministrazioni.

Il problema principale è la percentuale d’uso che viene affidata ai data centers rispetto alla disponibilità da destinare al consumo quotidiano e ad altri tipi di sviluppo.

Gli investimenti in questo settore sono continui e raggiungono cifre elevatissime. A volte è difficile capire il perché vengano costruiti così tanti data centers e se questa scelta serva solamente a garantire un’offerta maggiore sul mercato, anche se questo panorama non rispecchia in modo fedele l’uso e la gestione dei dati. Il mercato dei data centers funziona secondo regole a volte davvero molto difficili da capire e analizzare.