Interface design e sostenibilità: Piano D intervista Francesco Cara [Parte 1 di 2]

10 Settembre 2021

Digital Sustainability: una serie di interviste realizzate dal team di Piano D in collaborazione con Seeweb, ai maggiori esperti mondiali di sostenibilità digitale. L’obiettivo di questa rubrica è quello di sensibilizzare sul rapporto tra ambiente e sfera digital, condividere idee, opinioni e pillole informative; capire come un tema oggi sconosciuto in Italia, venga recepito all’estero.

In un contesto in cui l’emergenza climatica diventa sempre più elevata e la digitalizzazione crescente, la partita della sostenibilità si gioca anche sul terreno del web design. Abbiamo avuto la meravigliosa opportunità di parlare con Francesco Cara, esponente del The Climate Reality Project e docente presso IED Milano, per ragionare insieme sul futuro del digitale in ottica green. Ecco la nostra intervista.

Ciao Francesco, puoi raccontarci qual è il tuo background? Che studi hai frequentato, a cosa hai lavorato in passato e a cosa stai lavorando ora?

Inizio dalla mia formazione: io ho studiato scienze cognitive, termine usato negli anni ’90 e che adesso è stato sostituito dalla parola “neuroscienze”. Parliamo di quella che è la scienza della mente, che studia il funzionamento della memoria, del ragionamento, della decisione, della risoluzione di problemi, della pianificazione e dell’apprendimento.

Una scienza umana che si appoggia alle tecnologie più avanzate per “sistematizzare” (modellizzare e simulare) il funzionamento della mente.

Questa è stata la mia formazione di base; Dopo il dottorato all’Università di Edimburgo mi sono dedicato alla ricerca fondamentale, studiando in particolar modo i sistemi di apprendimento e quelli decisionali. Il mio percorso ha avuto una svolta a seguito di un incontro importantissimo, quello con il gruppo di ricercatori dell’università della California a San Diego guidati da Don Norman e Ed Hutchins dove le scienze cognitive erano utilizzate come strumento per il design e la progettazione.

Stiamo parlando dell’inizio degli anni ’90, nel periodo della transizione dall’analogico al digitale quando le interfacce testuali diventavano grafiche.

Nel 1993 dal laboratorio di ricerca in cui lavoravo all’Ecole Polytechnique a Parigi è nata una società, tra le prime in Europa, dedicata allo studio, la progettazione e il design dell’interazione. CB&J, così si chiamava, ci ha regalato anni straordinari e tantissime soddisfazioni. Nel particolare in quel periodo mi sono dedicato ai sistemi complessi, quindi ho lavorato molto nelle sale di controllo delle centrali nucleari e di controllo del traffico aereo.

Quello che mi preme sottolineare era il clima che si respirava in quegli anni: c’era questa enorme trasformazione in corso ed era fondamentale catturare e documentare la profonda conoscenza che gli operatori avevano del funzionamento del sistema analogico per progettare il nuovo sistema digitale e le sue molteplici interfacce grafiche.

Nel 1996 è arrivato il web e affascinati da questa nuova tecnologia abbiamo cominciato a studiarla, lavorando inizialmente tantissimo con i portali – per esempio, AOL, Wanadoo, France Explorer – che erano il canale attraverso cui le persone scoprivano internet.

La nostra attività di ricerca e progettazione si è così gradualmente trasferita sul web e intorno al 1998 siamo entrati in contatto con Icon Medialab, una società svedese che era una delle 5 agenzie web più importanti dell’epoca; la Icon Medialab ha acquisito la nostra società come centro d’eccellenza nel design dell’interazione e così io sono diventato responsabile del settore dedicato a quella che veniva chiamata Human Computer Interaction.

Come potete immaginare sono stati anni entusiasmanti, in cui si è potuto sperimentare liberamente perché tutto era da costruire, si progettavano esperienze che non esistevano e le risorse non mancavano.

A inizio 2000 la situazione era però già molto cambiata, il modo di lavorare e il tipo di progetti erano diversi e il web non era più progettazione di nuovi servizi ma stava virando in modo marcato verso il marketing.

È in questo periodo che ho avuto l’opportunità di entrare in Nokia a Helsinki, una società portatrice di valori per me importantissimi. Era il 2005 e Nokia stava inserendo all’interno dell’azienda persone che venivano dal mondo del web perché c’era una fortissima consapevolezza che il mercato della telefonia stava cambiando, e che doveva integrare i nuovi bisogni e le opportunità che arrivavano dal web.

In totale ho trascorso sette indimenticabili anni in Nokia, svolgendo il mio lavoro in ruoli di direzione ma sempre circondato da team di designer e ricercatori davvero straordinari.

Con il trasferimento del centro di Nokia Design da Helsinki a Londra, mi sono spostato lì e dopo qualche anno sono entrato in Sapient, una grande agenzia digitale e di comunicazione, che andava dalla pubblicità allo sviluppo di grandi piattaforme e-commerce e marketing, dove mi sono occupato di strategia.

Ho lavorato nel settore delle telecom con BT, dell’automotive con McLaren e il gruppo Volvo Trucks, e chiaramente essendo a Londra nel settore della finanza.

Proprio a Londra ho scoperto il movimento del Cleanweb e lì ho trovato un nuovo obiettivo, ed è cominciata un’altra fase della mia vita professionale dove ho cercato di esplorare la relazione tra digitale e sostenibilità, con l’idea di usare l’innovazione digitale come un acceleratore per la transizione ecologica.

Queste sono le mie grandi tappe, ho avuto la fortuna di poter portate un punto di vista umanistico nel lavoro di transizione dalle interfacce testuali a quelle grafiche, e poi dal web principalmente su pc al web mobile, e ora spero verso la sostenibilità.

Sappiamo che sei anche attivo sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici, in particolare con i movimenti “The Climate Reality Project” e “Right to repair”. Ci puoi raccontare la tua esperienza in queste due realtà?

Faccio un piccolo salto indietro a quando lavoravo ancora in Nokia: in Nokia Design si è sempre ritenuta fondamentale la sostenibilità, tanto che nel 2006 abbiamo lanciato questo grande progetto per ridurre l’impronta ecologica della logistica attraverso il redesign del packaging, un lavoro gigantesco che includeva ridurre la dimensione del packaging, introdurre il colore azzurro (che permette l’utilizzo di coloranti naturali), l’uso di cartone riciclato, e manuali d’uso ad un foglietto A5.

Siamo riusciti con questo progetto a far risparmiare alla società una cifra davvero importante, riducendo allo stesso tempo in modo molto significativo l’impatto ambientale. Già allora avvertivo questa sensibilità nei confronti del tema, ma credo oggettivamente che non ne fossi pienamente cosciente, lo sono diventato poi, valutando pienamente la criticità della problematica del cambiamento climatico e della sostenibilità ambientale.

Un’opportunità incredibile per capire meglio questi argomenti così complessi è arrivata partecipando al Climate Reality Project, lanciato nel 2006 da Al Gore, in occasione dell’uscita del suo film “Una scomoda verità”. Al Gore aveva voluto creare attorno al film una rete di volontari che potessero aiutare a diffondere ed approfondire le tematiche esplorate nella pellicola, portando questo messaggio in giro nelle scuole, negli atenei, e nelle aziende.

Negli anni questo piccolo gruppo di persone è cresciuto sempre più nel numero, grazie a un programma di formazione gratuito per volontari, un’esperienza incredibile alla quale ho avuto la fortuna di partecipare nel 2017: da allora ho deciso di dedicare attivamente una parte del mio tempo ad attività educative, principalmente nelle scuole ma non solo, per parlare agli studenti degli ultimi anni delle scuole superiori, proprio in quel momento delicatissimo dove stanno ancora decidendo cosa fare del loro futuro, i loro prossimi studi e la carriera che desiderano.

Cerco di intervenire in questo punto critico per coinvolgerli e renderli più consapevoli dell’importanza di questi temi, così che possano portarli avanti nell’ambito delle loro attività lavorative future.

Con il Climate Reality Project interveniamo anche quando ci sono dei progetti importanti nella comunità dove il nostro impegno può fare la differenza, come ad esempio è successo nei mesi scorsi a Milano con il piano “Aria Clima”. Abbiamo fatto un grande lavoro di analisi e revisione critica. E’ in questo contesto che è emersa la questione dell’impronta carbonio dell’infrastruttura digitale del Comune di Milano e la prospettiva dell’uso di energia verde per alimentarla.

Un altro momento per me fondamentale è stato l’incontro con il movimento dei Restart Parties quando mi trovavo ancora a Londra. Parliamo di incontri informativi dove riparatori esperti volontari si offrono per insegnare ai cittadini ad aggiustare dispositivi elettrici ed elettronici che hanno smesso di funzionare, a cui si è affezionati e che non si vogliono buttare via. Il vero valore di questi incontri, più che il servizio di riparazione fine a se stesso, è il supporto formativo e informativo che viene dato a chi partecipa, perché aiuta fondamentalmente a migliorare il rapporto con la tecnologia partendo da azioni semplici, pratiche, e soprattutto utilissime a prolungare la vita dei dispositivi e a ridurre i rifiuti.

Nell’autunno del 2018 i restarter britannici, italiani e tedeschi si sono uniti per lanciare una petizione per chiedere alla Commissiona Europea che il diritto alla riparazione sia uno dei principi fondamentali della economia circolare sulla quale la Commissione Europea stava legiferando in quel momento. In Italia abbiamo raccolto più di 100.000 firme in un paio di mesi sulla piattaforma di Change.org, e così è successo in Germania. Alla fine siamo riusciti a presentarci a Bruxelles con quasi 300.000 firme, un peso davvero importante, per cui il Consiglio d’Europa ha effettivamente introdotto i primi principi del diritto alla riparazione, che adesso sono una parte integrante della strategia per l’economia circolare nell’Unione Europea.

Sono state introdotte regole per garantire:

  1. La possibilità di smontare gli apparecchi in modo da poterli riparare e prolungare il loro ciclo di vita.
  2. La disponibilità di pezzi di ricambio per un periodo sufficientemente lungo.
  3. La disponibilità di documentazione tecnica e di guide alla riparazione.

Per fare un esempio pratico, grazie a questa campagna dal primo gennaio 2021 è stata introdotta in Francia l’obbligatorietà per i produttori di fornire l’indice di riparabilità di nuovi dispositivi elettronici, come smartphones, in modo che il cittadino al momento dell’acquisto possa valutare le caratteristiche tecniche, il prezzo, ma anche la facilità di riparazione:

Quanto il prodotto sia smontabile, se servono apparecchi o strumentazione apposita, se sono disponibili pezzi di ricambio e per quanto tempo, oltre al loro prezzo d’acquisto sul mercato e se esiste documentazione disponibile. Tutta una serie di criteri importantissimi che possono direzionare il consumatore nell’acquisto, in modo da orientarlo nel preferire a un prodotto di costo inferiore una selezione fatta in ottica della longevità e quindi del risparmio sul lungo termine.

Parliamo di un mondo che si muove in modo molto veloce e dinamico, davvero vicino alle tematiche del Green Hosting.

[Leggi la seconda parte dell’intervista qui]